di Andrea Sarubbi*
Elenco dei Paesi in cui non andrò in vacanza nel 2011: Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Cuba, Egitto, Filippine, Iraq, Iran, Kazakhstan, Marocco, Pakistan, Russia, Sri Lanka, Sudan, Tunisia, Venezuela e Vietnam. Tutti quelli assenti, cioè, alla cerimonia di consegna del Nobel 2010 per la pace, che quest’anno è stato vinto da una sedia vuota. Ho rischiato di non andare neppure in Serbia, in Colombia e in Ucraina, se non avessero cambiato idea all’ultimo momento. E certamente non andrò in Cina, fino a quando Liu Xiaobo non verrà liberato: l’esperienza di Shirin Ebadi in Iran (cacciata dalla magistratura, arrestata per disturbo della quiete pubblica, interdetta dall’attività di avvocato, ricercata per presunta frode fiscale, intimorita con un’aggressione a suo marito, umiliata con il sequestro del premio) ci insegna che il vincitore di un Nobel può combattere contro un regime senza prendere in mano nemmeno un tagliaunghie, ma è proprio questo che Pechino teme di più.
Ero tra quelli che, nel 2008, chiesero al governo italiano di non partecipare alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, separando il momento dello sport – che nasce per unire, ed è giusto che sia così – da quello della rappresentanza istituzionale. Mi venne risposto in Commissione, dal sottosegretario Crimi, che sarebbe stato uno sgarbo per i nostri atleti; in realtà, come ben sappiamo, sarebbe stato uno sgarbo soprattutto per i nostri affari, visto che – e penso anche a Prodi, che si precipitò in Cina proprio all’indomani del giuramento da premier – temiamo un’alzata di sopracciglia da parte di Pechino più di una catastrofe naturale. Nel giorno del Nobel al dissidente, allora, vale forse la pena ricordare a noi stessi le prime righe del rapporto 2010 di Amnesty International sulla Cina:
“Le autorità hanno continuato a imporre restrizioni sulla libertà di espressione, di riunione e di associazione, in parte dovute a temi sensibili legati a una serie di anniversari storici, compreso il 60° anniversario della Repubblica popolare, il 1° ottobre. Difensori dei diritti umani sono stati arrestati, perseguiti, tenuti agli arresti domiciliari e sottoposti a sparizioni forzate. Non si sono allentati i pervasivi controlli su Internet e sugli organi di informazione. Le campagne ‘colpire duro’ hanno portato ad arresti su vasta scala nella Regione autonoma dello Xinjiang uiguro (Xuar), in particolare a seguito delle violenze e dei disordini di luglio. Nelle zone a popolazione tibetana è stato impedito un monitoraggio indipendente sulla situazione dei diritti umani. Le autorità hanno continuato ad attuare stretti controlli sui parametri della pratica religiosa, a causa dei quali cattolici e protestanti che professavano la loro religione al di fuori dei vincoli ufficiali sono stati sottoposti a vessazioni, detenzioni e talvolta carcerazioni. È proseguita la severa e sistematica campagna decennale contro il Falun Gong”.
Ora, mettiamola come vogliamo ma facciamo qualcosa. Perché attualmente – e già da un po’ – mi sembra che stiamo giocando la politica dei due forni: da un lato, mandiamo avanti l’Unione europea a chiedere la liberazione dei dissidenti e il rispetto dei diritti umani; dall’altro, i singoli Stati (e noi fra questi) si preoccupano soprattutto di non lasciarsi sfuggire il mercato di un Paese che, da solo, vale un quinto del Pianeta. Quando l’anno scorso Sarkozy ricevette il Dalai Lama, e da Pechino partì una circolare perché nessuno trattasse più con le imprese francesi, noi lo facemmo arrivare al massimo in Campidoglio, ma non a Palazzo Chigi: lo stesso era accaduto anche in precedenza, con governi diversi, e ogni volta ci siamo inventati una scusa perché la visita non fosse mai ufficiale. Non sono così stupido da non comprendere le ragioni diplomatiche, per carità: voglio solo dire – approfittando di questa giornata triste – che abbiamo già provato una volta a fissare il prezzo dei diritti umani, con la Libia, ed abbiamo visto come è andata a finire.(da www.andreasarubbi.it)
*Deputato
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